Ogni estate mi riporta a vecchie estati. In particolare a quelle degli anni ’80. Gli anni della mia infanzia. L’asilo e la scuola scandivano le stagioni. Così quando in classe spuntavano i primi calzoncini corti e i sandali a ragnetto si apriva il conto alla rovescia per le vacanze. Che poi a me neppure piacevano troppo.
Io e la mia famiglia vivevamo coi nonni e l’arrivo dell’estate aveva dei segnali chiari e inequivocabili. Il roseto vicino casa, lungo la strada, sfoggiava fiori meravigliosi e profumati; il prete del paese ricordava che “Gesù non va in vacanza” per invitarci bonariamente a continuare ad andare a messa e comportarci bene; le tracce dei temi in classe parlavano di mare, montagna, paesaggi che mutavano. E poi c’era la Gis gelati. Un’azienda che a qualche chilometro da casa produceva gelati. Era la trasferta ad inizio giugno con la nonna paterna a decretare l’ufficialità dell’arrivo della bella stagione. In auto andavamo in quel posto che, agli occhi di una bimbetta, era il paradiso. Gelati, gelati, gelati. Vendita al dettaglio che per mia nonna significava scorta per tutta l’estate. Un paradiso dove alla fine sceglievamo sempre le stesse cose: coppetta vaniglia e cacao, stecco e biscotto che andavano a riempire il congelatore a pozzetto che da quel momento diventava scrigno dei desideri. L’estate poteva iniziare.
La festa a scuola nell’ultimo giorno, i saluti agli amici che per la maggior parte avrei rivisto a settembre, il libro delle vacanze che avrei sempre fatto di corsa nelle ultime due settimane prima del rientro in classe. E la consapevolezza che, anche per quell’estate, non avrei avuto una festa di compleanno. Nata a fine luglio, quando il mondo (tranne me) era altrove: al mare, in montagna, in vacanza dai nonni, a casa ma in un quartiere distante. E quindi…niente. La cosa, però, non mi ha mai più di tanto intristita. C’erano la torta a casa, le foto, qualche regalino. Sufficiente per una con l’indole “non festaiola”. Che a questo punto sarebbe da approfondire se l’indole era innata o maturata inconsapevolmente per le circostanze.
Ma gli anni ’80 erano così, l’infanzia era così: leggera, sorridente, spensierata. Come il Festivalbar, come le chiavi lasciate fuori dalla porta di casa anche di sera, come il pescatore che col furgoncino passava il venerdì in paese con le “alici più buone che ci stanno nel mare”.
L’estate della mia infanzia è il Diaro di Anna Frank: il primo vero libro che la maestra ci affidò come lettura per le vacanze credo nel passaggio fra la quarta e la quinta elementare. Mi sembrava una cosa importantissima avere per mano un libro da grandi, ma scritto da una ragazzina come me. E questa cosa mi spingeva a vedere un “possibile” in tutto. Era bello. Mi sedevo sul gradino dell’uscio di casa, leggevo con i fili colorati della tenda in plastica che si muovevano dietro di me mosse dal quel leggero venticello che quando ci ripenso mi pare di sentire ancora. Il sole, il silenzio del quartiere, i saluti dei vicini.
Poi il sorriso grande di Nasty. Una compagna di classe vivace, scaltra, sveglia come poche. Eravamo vicine di casa e l’estate rappresentavamo l’una per l’altra l’anello di congiunzione con la scuola. Con quella normalità che ci piaceva ma che si metteva in pausa per qualche mese. Amava i colori, i vestiti, i trucchi. Voleva fare la stilista, disegnava continuamente abiti e a me, che non sapevo tenere una matita in mano, sembrava bravissima. Credo lo fosse veramente e forse, testarda come era, sarebbe riuscita a realizzare il suo sogno. Ma il destino, qualche anno dopo, su una anonima strada di provincia, le ha detto “no”. Lei resta comunque lì, nelle estati della mia infanzia. Col suo sorriso.
Come c’è mia nonna, con le sue colazioni di metà mattinata a base di pane e pomodoro. Ah, i pomodori. Quintali di salsa di pomodoro preparati ad agosto con un rituale tanto rigoroso quanto gioioso. Soprattutto per i bambini. Giorni intensi per le famiglie del quartiere. Tutti alle prese con bottiglie da lavare, cassette da sistemare, pomodori da pulire, tagliare, passare. E alla fine di tutto la classica domanda, in rigoroso dialetto: “quant nj fatt uan?” (quanta ne hai fatta quest’anno?). E l’unità di misura non era mai in litri.
Attorno alle otto del mattino scendevo di corsa dal letto, sentivo il vociare arrivare dalla rimessa dove era allestito il “laboratorio”, e davanti mi si paravano sei sette otto persone. Tutti al lavoro da almeno un paio d’ore. Davo il mio contributo e poi mi si affidava il compito più bello: andare dal fornaio a comprare le pizze bianche per la colazione. Che detta così non rende. La colazione è quella del risveglio; a metà mattina, per chi ha già la fatica sulle spalle, si chiama sdjiuno. Benito, il fornaio, aveva le pizze e i bomboloni alla crema più buoni del pianeta. Attorno a Ferragosto c’era la tv a ricordarci che potevamo seriamente ricominciare a pensare alla scuola: le pubblicità di zaini, astucci, penne, diari coltivavano l’anima consumistica dei piccoli scolari.
Le estati dell’infanzia sono come cartoline dal passato che restano lì, per nulla scalfite o sbiadite dal tempo che corre oggi troppo veloce. Le corse e le cadute in bicicletta, i nonni, le lunghe giornate al mare con le borse frigo piene di tutto, le passeggiate nell’orto per raccogliere i pomodori, i gelati sul terrazzo, il libro delle vacanze sul grande tavolo in legno, la radio accesa coi tormentoni del Festivalbar, il profumo del basilico, le ciliegie mangiate sotto l’albero, i visi di chi non c’è più. Ma resta, nonostante il tempo.