Lo chiamano “smart working” ed il Covid19 lo ha reso famoso. Io lo chiamavo (e lo chiamo ancora) “lavoro da casa”: abbiamo stretto amicizia nel 2016, dopo la nascita della mia prima figlia, Alice.

Il nostro rapporto – quello fra me e smart w. – è fatto di alti e bassi, amore e odio, di “basta non ti sopporto più!” a “come farei senza di te?”.

Quattro anni fa è stata per me decisamente una svolta poter lavorare da casa, in modalità “agile”, e dunque alla quarantena ci sono arrivata più o meno pronta. Ma con un figlio in più. Nel 2019 è nato Davide che, a differenza della sorella, ha provato sin dai 7 mesi l’ebbrezza dell’asilo nido: bimbi, giochi, maestre. Raffreddori, tosse, influenza. Tutto nella norma. Ed io, col piccolo alloggiato fra braccia amorevoli e la “grande” che ormai aveva le chiavi della sua scuola dell’infanzia (tanto si è inserita bene sin da subito), nell’ottobre scorso ho riprovato il brivido della redazione. Almeno per qualche ora al giorno.

“Ma il piccolo non piange quando lo lasci?”, “Ma sicura che si trova bene?”, “Ma come mai lui al nido e la sorella no?”. Insomma, per farla breve, il nuovo equilibrio è durato poco. Quando le varie curiosità erano soddisfatte e le caselle colazione, lavarsi, vestirsi, uscire tutti insieme alle 8.30, lascia la grande, lascia il piccolo, “ciao amo’, ci vediamo alle 14 da Davide”, “ok, a dopo, per pranzo una cosa veloce”…insomma…quando il caos sembrava avere un senso ed anche un ritmo…è arrivata la pandemia.

Un’agenzia di stampa, letta sul cellulare mentre alle 14 circa varcavo il cancello dell’asilo di Alice, mi piazza lì un lancio crudele, freddo, distaccato come solo un lancio Ansa sa essere: “si va verso la chiusura delle scuole”. Panico. Ansia. Moto infantile di rabbia di chi sta per perdere il controllo su una situazione che ha da poco imparato a gestire per bene. Telefonata isterica a mio marito che, fra un “ma dai è solo un’ipotesi non confermata” e un “va be, Alice magari oggi la lasciamo un po’ di più a scuola, la riprendo alle 16”, cercava invano di riportarmi alla calma.

Come è andata lo sappiamo tutti. Dall’ipotesi al lockdown è stato praticamente un attimo.

A diciotto ore di distanza dal lancio di agenzia, ero di nuovo mio malgrado in “modalità agile” col lavoro. Per qualche giorno i nonni si sono immolati (con due bambini così piccoli, siamo franchi, è durissima anche per loro!), poi il distanziamento sociale e via discorrendo mi hanno inchiodata qua.

Pronta, certo, perché lo avevo già fatto. Ma non prontissima. L’esperienza maturata con una figlia non forgia abbastanza per il salto di qualità. Per lo smart working con due figli in casa. Quattro anni lei. Uno lui. Lei che parla, sempre, tanto. E crea, inventa, gioca, vive per stare in società (ci domandiamo ancora in famiglia da chi abbia ereditato tanta socievolezza!). Lui che…dorme poco, gattona, si arrampica ovunque, mangia qualsiasi cosa gli capiti a tiro (cibo, penne, tappi, giochi, scarpe, libri, calzini, pezzi di biscotti abbandonati chissà da quando…), mette denti, fa vaccini…Un bel casino insomma.

Si intuisce subito come in tutto ciò di smart ci sia poco o nulla. Anzi, diciamo proprio nulla.

Però sono viva. Anzi. A distanza di diverse settimane dall’inizio di tutto ciò siamo tutti vivi, incensurati e in discrete condizioni di salute. Mi pare un buon risultato.

Ma i salti mortali che facciamo, e che più o meno fanno tante famiglie come la mia, meritano un post a parte!

(Nella foto, le due bellissime ragioni del mio smart working)

VM